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Anselm Jappe

Cambiare cavallo

traduzione a cura di Alessandro Simoncini

Quando a 26 anni Marx scrisse uno dei suoi testi più importanti, i Manoscritti economico-filosofici del 1844, viveva a Parigi e frequentava le associazioni operaie in cui si parlava del socialismo. Marx ha sempre attribuito una grande importanza a questo primo incontro con degli uomini che si proponevano di rovesciare praticamente l’ordine borghese. Nel paragrafo citato (che si trova all’interno di un’analisi consacrata alla degenerazione del bisogno nella società capitalista) ha reso loro un bell’omaggio – non solo alle loro dottrine (che presto inizierà a criticare senza pietà), ma anche al loro spirito di fraternità: nella loro esistenza quotidiana, nei loro atti più semplici, essi vivevano già in una maniera diversa rispetto a quella della società che intendevano combattere.

Diversi studi hanno confermato la straordinaria fertilità degli ambienti definiti “proto-socialisti”, soprattutto all’epoca di Luigi Filippo. Piuttosto che di “operai” in senso moderno, quegli ambienti erano composti essenzialmente da artigiani con uno sviluppato senso dell’indipendenza che gli derivava dal ricordo delle loro vecchie condizioni ora minacciate dal progresso della grande industria. Marx si è in seguito allontanato da quello che chiamava “socialismo utopistico” e da teorici come P.-J. Proudhon, che restavano vicini alla mentalità di questi artigiani-operai. A quei tempi Marx raccomandava il passaggio, pressoché obbligato, di tutte le società attraverso i tormenti del capitalismo industriale prima di poter approdare al comunismo. Ma alla fine della sua vita (nelle famose lettere a Vera Zasuli?) ha dovuto nuovamente ammettere che esistevano già prima delle comunità che praticavano la proprietà collettiva dei mezzi di produzione e che avrebbero potuto rappresentare la base del comunismo futuro: si trattava delle comunità agrarie tradizionali (mir).

A parte la questione dell’importanza delle realtà premoderne per un oltrepassamento del capitalismo,2 quello che qui si dava a vedere era la possibilità che l’opposizione alla società borghese e capitalista fosse condotta da esseri umani profondamente diversi da questa stessa società, dai suoi modi di vita e dai suoi valori: esseri umani che, quand’anche sfruttati ed oppressi da questa società, praticano già tra di loro alcuni frammenti della vita che vogliono realizzare nell’avvenire tramite una lotta collettiva. Molti movimenti rivoluzionari nei paesi periferici, come anche buona parte della galassia anarchica, sono nati da questa situazione di esteriorità nei confronti del capitalismo. Questo era allora vissuto come l’invasione di una forza venuta da altrove. In Spagna il movimento anarchico, che ha raggiunto il suo climax nella rivoluzione del 1936, traeva la propria forza dal proprio radicamento in una cultura quotidiana delle classi popolari largamente contrassegnata da tradizioni precapitaliste. Il disprezzo per la ricchezza, una volta soddisfatte le necessità di base, e l’avversione nei confronti del lavoro, soprattutto di quello industriale, erano il fondamento di questa mentalità.3 Spesso si trattava più di un rifiuto di entrare nella società capitalista che di uno sforzo per uscirne o per migliorarla. Oltre un secolo prima, le rivolte dei Luddisti in Inghilterra avevano avuto lo stesso fine : non dover diventare degli operai. All’inizio della Rivoluzione industriale, in Inghilterra, alcuni proprietari di fabbrica constatavano sconfortati che mettere al lavoro in fabbrica un highlander – un abitante della selvaggia Scozia interna – era come «aggiogare un cervo ad un aratro».

Fino ad oggi la diffusione del modo di vita e di produzione capitalista ha incontrato spesso forti resistenze in regioni ed ambienti ancora estranei ad essi. Non bisogna idealizzare queste resistenze, perché talvolta difendono ordini fortemente patriarcali e gerarchici, fondati su un primato assoluto della comunità sull’individuo. Tuttavia esse dimostrano che il capitalismo può trovare forme di opposizione che non sono ad esso immanenti, che cioé non si collocano sul terreno che gli è proprio : proprio ciò che hanno fatto le principali correnti del movimento operaio. I social-democratici si sono limitati molto presto, ed esplicitamente, a non richiedere altro che una distribuzione più equa dei frutti della produzione capitalista. I leninisti affermavano di voler rovesciare completamente questo modo di produzione. Ma per arrivarci, dicevano, bisognava prima passare attraverso il capitalismo, modernizzare il paese, imparare dal nemico. Come si sa, Lenin scorgeva nelle poste tedesche un modello per la costruzione del socialismo. Conseguentemente, raccomandava l’importazione del fordismo e del taylorismo – l’ «organizzazione scientifica del lavoro» – in Unione sovietica. Nelle sue note su Americanismo e fordismo, Antonio Gramsci – che viene spesso presentato come una delle fonti più importanti per il rinnovamento di una critica sociale alternativa, contro il socialismo di Stato – si entusiasmava allo stesso modo per il fordismo e la catena di montaggio – non solo a causa dell’aumento della produzione che essi permettevano, ma anche per i loro effetti benefici sulla vita morale degli operai. La disciplina del lavoro, sosteneva Gramsci, li avrebbe spinti ad abbandonare vizi come il sesso fuori dal matrimonio e l’ozio !

Il radicalismo nei metodi impiegati non dovrebbe far dimenticare che i leninisti, in tutte le loro varianti, i gauchistes, i comunisti consiliaristi e anche la maggioranza degli anarchici non si collocano fuori dal contesto della società fondata sul valore, la merce, il denaro e il lavoro astratto. Al contrario, in loro il culto del lavoro è stato spesso portato al parossismo. La sinistra denunciava lo sfruttamento del lavoro e le condizioni nelle quali si svolgeva. Ma aveva messo totalmente da parte uno dei fondamenti della teoria di Marx: non è affatto naturale – ed è piuttosto una caratteristica del solo capitalismo – che l’attività sociale, senza riguardo al suo contenuto, conti solo in quanto semplice dispendio di tempo indifferenziato – quello che Marx chiama « lavoro astratto » -, che questo tempo dia forma ad un « valore » fantomatico e che quest’ultimo sia infine rappresentato nel denaro. Esattamente come la scienza economica borghese, la sinistra in quasi tutte le sue forme considerava valore e lavoro astratto, merce e denaro come fattori eterni di ogni vita sociale – si trattava, dunque, solamente di assicurarne una più equa distribuzione.

Al contempo, la produzione industriale e il produttivismo erano fortemente approvati da tutte le sinistre (con la sola eccezione di una parte del movimento anarchico, di certi artisti, come i surrealisti, e di pensatori come William Morris). Prima degli anni ’60, l’identificazione della felicità con il consumo di merci trovava a sinistra ben poche critiche, e queste sono rimaste marginali anche dopo. L’occupazione progressiva di tutti gli spazi della vita da parte della merce e del lavoro comportava la diffusione di comportamenti umani come l’efficacia, la velocità, la disciplina, lo spirito di sacrificio nel campo del lavoro e la concezione narcisistica del proprio ruolo nella vita. Spesso la sinistra rincarava la dose, felicitandosi instancabilmente di ogni «modernizzazione». In breve, le opposizioni anti-capitaliste del XX secolo erano in grande misura movimenti alter-capitalisti: opposizioni immanenti, che intendevano condurre la battaglia sul modo migliore di amministrare la società del lavoro. La differenza tra «radicali» e «moderati» di sinistra riguardava allora più la forma dell’intervento che il suo contenuto. La fabbrica in autogestione operaia, tanto inquinante e tanto orientata alla performance sui mercati quanto prima, ne era forse l’emblema.

Durante gli ultimi decenni, l’ecologismo, il femminismo, i modi di vita «alternativi» e recentemente movimenti come quello della « decrescita » hanno messo in discussione il modello di esistenza propagato dal capitalismo industriale. Ma si sa che anche la rivincita di quella che Luc Boltanski ed Eve Chiapello hanno chiamato la «critique artiste» sulla «critique sociale» ha avuto degli effetti perversi: essa aiuta il capitalismo a ristrutturarsi recuperando le critiche per realizzare un dispositivo di governo più flessibile e individualizzato ; rimane dunque, anche senza volerlo, in una prospettiva «immanent ».

Ma è soprattutto nell’adorazione del feticcio-lavoro che il capitalismo e i suoi presunti avversari dimostrano la loro coappartenenza al medesimo universo. Salvo qualche timida eccezione, spesso incoerente, pressochè nessuno immagina una società che non sia più fondata sulla necessita di vendere la propria forza lavoro per poter vivere – anche se non si trovano più da nessuna parte degli acquirenti. Le tecnologie hanno sostituito il lavoro umano in tutti i settori, nel mondo intero e ad un punto tale che il lavoro ha perso il suo ruolo di forza produttiva principale. Tuttavia, la produzione capitalista non ha per fine la ricchezza concreta, ma l’accumulazione di valore – che si crea solo mediante l’utilizzo della forza lavoro, la quale mediante il pluslavoro genera il plusvalore. E non è un lavoro qualsiasi a creare valore, ma solamente quello che riproduce il capitale investito secondo gli standard della produttività mondiale. Ecco perchè anche milioni di nuovi lavoratori in Cina non permettono all’accumulazione capitalista esangue di rianimarsi. I profitti che vengono ancora ottenuti da qualche attore economico, segnatamente nel campo della finanza, non dimostrano in alcun modo che il capitalismo nel suo complesso goda di buona salute.

In breve, il problema principale oggi non è solamente lo sfruttamento del lavoro (anche se questo esiste, e più di prima), ma il fatto che strati sempre più ampi di popolazione sono stati resi « superflui » da una produzione che fa a meno della forza lavoro. Ed è ridicolo immaginare di poter dare «lavoro» a tutti i «superflui». Bisognerebbe piuttosto cominciare a immaginare una società che non utilizzi il proprio potenziale produttivo per soddisfare la ricerca di un essere fantomatico e feticista come il « valore di merce », ma che si serve di quel potenziale per soddisfare i bisogni umani.

La crisi del capitalismo è al tempo stesso la crisi dei suoi avversari tradizionali. Con la fine graduale del lavoro, e dunque del valore e del denaro « valido » che ne risulta, tutte le opposizioni che vi si riferiscono o che vogliano impossessarsene per farne un uso migliore perdono pertinenza. Lo stesso vale per chi vuole conquistare il potere statale al fine di trasformarlo nella leva di una trasformazione emancipatoria. Per poter uscire dall’esausta società capitalista, bisogna innazitutto dissociarsi da tutti i suoi fondamenti, anche dentro le teste. Questo è più difficile di quanto si possa credere, anche se la coscienza dell’urgenza di questo compito sembra più diffusa che quindici anni fa. Tutti i membri delle società attuali sono cresciuti e vissuti in condizioni nelle quali quasi ogni elemento della vita assume forma di merce e in cui si ottiene ciò che si cerca attraverso il denaro guadagnato tramite il lavoro (il proprio o quello degli altri; il lavoro presente o quello passato). Allora, l’idea di disporre di una grande quantità di denaro è evidentemente gradevole, come quella di poter vedere i poteri pubblici utilizzare meglio i loro fondi. In compenso, dover affrontare una svalutazione generalizzata del denaro e del lavoro può dare le vertigini e fare paura. Ciononostante, è a partire da questa nuova situazione prodotta dalla crisi che si può iniziare a immaginare una società post-capitalista che non si riduca ad essere un’altra versione di ciò che già conosciamo.

 




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