La perdita di autonomia dello Stato e i limiti della politica

Quattro tesi sulla crisi della regolazione politica

Mercato e Stato, economia e politica come poli del medesimo campo storico

Regolarmente nella storia della modernità due principi più o meno antagonisti sono entrati in conflitto tra loro: mercato e Stato, economia e politica, capitalismo e socialismo. Sempre si è rinnovato il dissidio tra «homo oeconomicus» e «homo politicus»; ad ogni avanzata della modernità, ad ogni crisi sono scesi in campo, l’uno contro l’altro armati, «individualisti» e «collettivisti», liberi imprenditori e fautori dell’economia pianificata, manager d’azienda e burocrati di stato, liberisti ed interventisti, sostenitori del libero commercio e protezionisti. Negli ultimi decenni questa costellazione ha assunto la forma di un contrasto di natura economico-politica tra monetaristi e keynesiani.

Ad uno sguardo retrospettivo entrambe le parti in causa possono vantare successi e fallimenti. Ma come è possibile andare avanti? Ora ci troviamo non solo alla fine di un secolo e di un millennio, ma forse anche alla fine delle costellazioni e delle contrapposizioni cui eravamo finora abituati, alla fine della modernità e, chissà,   alla fine della politica economica stessa. Ovunque si fa strada la sensazione che non si abbia a che fare semplicemente con una ricorrenza assai singolare, cioè la fine di un millennio con le irrazionali paure che essa suscita, ma con un’autentica e profonda rottura epocale e con una crisi secolare della società globale.

Il crollo del modello sovietico fondato sull’economia di Stato ha condotto dapprima analisti e teorici all’opinione secondo cui il vecchio conflitto sistemico si sarebbe risolto una volta per sempre. Il paradigma occidentale, liberale, individualistico, imprenditoriale ed orientato al mercato avrebbe conseguito la vittoria storica assoluta. Tuttavia la realtà globale ci racconta una storia assai diversa. La trasformazione delle vecchie economie di Stato in economie di mercato è, in termini generali, fallita per adesso. Al contrario, una grave crisi strutturale ha raggiunto nel frattempo anche le metropoli occidentali. E la scomparsa dell’eterna alternativa, dell’altro polo ideologico della modernità, non ha affatto condotto alla pacificazione sotto il segno dell’individualismo modellato sulla forma-merce e del mercato totale. Il modo di vita capitalistico è troppo unidimensionale, il mercato troppo distruttivo e l’ideologia occidentale troppo flebile perché questo sistema possa esistere senza un polo contrapposto. Pertanto il paradigma occidentale basato sull’economia di mercato non è stato in grado di riempire il vuoto lasciato dall’economia e dall’ideologia statalista. Invece è stato il fondamentalismo pseudo-religioso od etnico ad occupare lo spazio dell’alternativa scomparsa: di gran lunga più pericoloso ed imprevedibile di quanto non fosse mai stato il socialismo di Stato. Il fondamentalismo è il meritato castigo per la hybris dell’economia di mercato così come per il fallimento del socialismo ovvero del polo statalista, pianificatore, collettivista dell’epoca moderna.

In retrospettiva appare ormai evidente come socialismo ed economia di Stato non fossero solo due forze esterne  contrapposte all’economia di mercato occidentale. Così come i due poli di un campo magnetico o di una pila elettrica non si limitano a escludersi vicendevolmente ma si presuppongono l’un l’altro, risultando perciò complementari, la stessa cosa vale per le posizioni antipodiche della modernità. Mercato e Stato, denaro e potere, economia e politica, capitalismo e socialismo non sono reali alternative ma i due poli di un medesimo ed unico «campo» storico della modernità. Questo vale anche per il dualismo tra capitale e lavoro. Per quanto questi poli possano essere conflittuali, essi, per loro natura, non possono sussistere per se stessi finché esiste il «campo» storico che li ha costituiti nella loro contrapposizione. Questo «campo», nel suo insieme, è il sistema produttore di merci della modernità, la forma-merce resa totale, l’incessante trasformazione di lavoro astratto in denaro e dunque la processualità della «conversione in valore», l’astratta economizzazione del mondo.

E’ facile comprendere come, in questo sistema, entrambi i poli di capitale e lavoro, mercato e Stato, capitalismo e socialismo debbano sempre esistere quale che sia il travestimento storico ed il relativo peso dei due poli. L’economia di Stato totale di stampo sovietico e il totale liberalismo economico (come nel pensiero di un Friedrich August von Hayek o di un Milton Friedman) sono solo gli estremi di un intero spettro di ideologie, politiche economiche e forme di riproduzione politico-economiche che si richiamano tutte al medesimo sistema di riferimento cioè la forma-merce totale della società. Questo significa che anche la pianificazione statale più spinta può operare solo nelle forme del mercato cioè secondo le categorie della merce e del denaro, come notoriamente è sempre stato il caso dell’economia sovietica. Inversamente anche il radicalismo di mercato più estremo non può sussistere senza il suo polo politico-statale. Al contrario vale in ogni economia di mercato una «legge della quota crescente dello Stato e delle sue attività», formulata per la prima volta già nel 1863 dall’economista Adolph Wagner. Da allora tale legge, nelle sue linee essenziali, è stata confermata dal reale sviluppo strutturale. Gli ideologi neoliberali vedono in ciò il «peccato originale socialista» all’interno del capitalismo. Ma da una parte, questa considerazione è insensata poiché non si tratta di un peccato originale, bensi di uno sviluppo strutturale sistemicamente condizionato. Tuttavia è corretto parlare della presenza, da sempre, del socialismo nell’economia di mercato e dell’economia di mercato nel socialismo, se intendiamo per socialismo un ruolo più o meno forte dello Stato nell’economia (il concetto di socialismo di Stato è dunque perfettamente adeguato per l’economia sovietica la quale, a dispetto della sua legittimazione ideologica marxista, era molto più vicina a Lassalle, Rodbertus o Wagner che a Marx).

Le «teorie della convergenza»,già negli anni Cinquanta, avevano riflettuto su questo problema e ne avevano tratto la conclusione circa un reciproco, graduale avvicinamento dei due blocchi sistemici. Ed essendosi un po’ mitigata l’euforia neoliberale dopo il 1989, tornano a farsi sentire voci che mettono in guardia circa l’unilateralismo radicale del mercato. Sarebbe molto più utile, affermano, una «giusta miscela» di mercato e Stato. Assistiamo così ad uno spettacolo bizzarro: mentre i socialisti e i keynesiani stanno diventando tutti, più o meno, neoliberali e monetaristi, questi ultimi dal canto loro si stanno convertendo, più o meno, al keynesismo. Perfino negli USA è nata una nuova corrente rappresentata dagli economisti Paul Romer (Berkeley) e Richard Freeman (Harvard) che vede nell’eccessiva diseguaglianza dei redditi, causata dal neoliberalismo radicale, un pericolo per la crescita economica ed esige una qualche forma di intervento compensatorio da parte dello stato. La pensano così anche i governi neoliberali del Cile e del Messico allarmati, tra l’altro, dalla rivolta nel Chiapas e dalla pericolosa degradazione sociale, costretti a reagire attraverso programmi sociali di intervento statale. La stessa cosa vale per i riformatori che stanno introducendo l’economia di mercato nell’Europa dell’Est e nell’ex Unione Sovietica. Anche la Banca Mondiale, sotto la pressione della crisi, ha iniziato ad integrare, almeno in modo cosmetico, i suoi programmi radicalmente improntati all’economia di mercato con «misure di sostegno» sociali ed ecologiche, impossibili da realizzare senza l’intervento statale.

E’ possibile dunque che, dopo l’unilateralismo socialista o keynesiano da un lato e quello neoliberale col suo radicalismo di mercato dall’altro, sia giunta l’ora di una  convergenza che abbraccia entrambi, di una «via di mezzo» nel campo teoretico e pratico?  C’è però da chiedersi se questo paradigma piuttosto fiacco possa venire a capo della secolare crisi strutturale. E’ poco probabile che una «giusta miscela» di mercato e Stato possa determinare uno sviluppo ragionevolmente equilibrato del sistema. E’ altrettanto possibile che, in realtà, il campo storico comune dei poli di stato e mercato, economia e politica cioè il quadro di riferimento comune del moderno sistema produttore di merci sia giunto ai suoi limiti assoluti. Di conseguenza dobbiamo porci ben altre e assai più fondamentali questioni, che non possono essere trattate con gli strumenti analitici tradizionali, né  tantomeno con una emulsione eclettica delle terapie  che si sono fin qui escluse reciprocamente.

Le funzioni economiche dello stato moderno

Per quale motivo il ruolo dello Stato si è a tal punto accresciuto nel tempo, anche nelle economie di mercato aperte dell’Occidente, a dispetto delle ideologie ufficiali? Essenzialmente possiamo individuare cinque livelli o settori in cui lo Stato moderno opera e che risultano tutte dalle dinamiche dell’economia di mercato. In altri termini: mano a mano che l’economia di mercato si espandeva strutturalmente, abbracciando la riproduzione sociale nella sua interezza e diventando un modus vivendi universale, tanto più lo Stato doveva allargare a sua volta il suo raggio di azione. Si tratta di una relazione reciproca inevitabile.

Il primo livello è quello giuridico, ovvero il processo di «regolamentazione nella forma del diritto». Lo sviluppo dell’economia di mercato e dei relativi rapporti monetari astratti, è andato di pari passo con l’indebolimento della forza coesiva delle forme di relazione tradizionali e premoderne; di conseguenza la prassi e i rapporti sociali dovevano essere tradotti nella forma astratta del diritto ed essere così codificati giuridicamente. Tutti gli uomini senza eccezione, compresi i produttori immediati, devono agire sempre più come moderni soggetti di diritto, poiché ogni relazione si trasforma in un rapporto contrattuale modellato sulla forma-merce. Lo Stato si trasforma perciò una macchina legiferatrice in servizio permanente, e quanto più si moltiplicano i rapporti in forma di merce o denaro tanto più occorrono leggi e norme esecutive. A seguito di ciò si ingrossa anche l’apparato dell’amministrazione statale perché la regolamentazione giuridica deve essere controllata e messa in pratica. La natura di questo processo non è affatto completamente «extra-economica» poiché l’apparato amministrativo in permanente espansione deve essere finanziato. La crescita continua del processo di regolamentazione giuridica esige di per sé una crescita equivalente dell’onere finanziario da parte dello Stato. Anche la mera regolazione mediante il diritto non è immune da costi.

Il secondo livello in cui lo Stato deve operare in misura sempre maggiore è quello relativo ai problemi di natura sociale ed ecologica derivati dal sistema dell’economia di mercato. Attraverso la storia della modernità abbiamo assistito non solo alla scomparsa dei rapporti tradizionali ma anche a quella degli obblighi nei confronti del proprio gruppo sociale e delle generazioni successive. Al posto di strutture sociali locali, personali, familiari e naturali per l’educazione dei figli, per la cura di malati e bisognosi, per il sostentamento delle persone anziane, dovevano subentrare progressivamente altre strutture di tipo nazionale, impersonale, pubblico, coerenti coi rapporti di merce e denaro. Solo lo Stato e non certo il mercato può occuparsi di tali oneri; questo perché il mercato in quanto tale non possiede nessuna sensibilità, nessun organo per quegli stadi dell’esistenza umana che fuoriescono dall’incessante processo di trasformazione del lavoro in denaro o che non sono compatibili per loro natura con esso. Tale sfera dell’attività dello Stato naturalmente si differenzia da un paese all’altro a seconda del grado di sviluppo, della sua storia e della sua posizione nel mercato mondiale ed è regolamentata in modo più o meno marcato, ma la sua secolare espansione in rapporto all’espansione dei rapporti di mercato è un fatto indiscutibile.

 Lo stesso vale per i problemi sociali conseguenti ai mutamenti ed ai cicli dell’economia di mercato. La modernizzazione non è affatto una transizione da una fase statica ad un’altra fase statica ma la transizione da una forma statica ad una forma dinamica di società. La modernizzazione è dunque un processo di mutazione permanente, che mette a soqquadro ogni volta l’intera struttura riproduttiva. Tanto il ciclo congiunturale quanto la «distruzione creativa» di interi settori – così Joseph Schumpeter definiva in modo un po’ eufemistico i periodici crolli strutturali – ricreano di continuo il problema della disoccupazione di massa. In un mondo interamente monetarizzato e giuridicamente regolato, non solo l’infanzia, la malattia e la vecchiaia devono essere totalmente o parzialmente a carica dello Stato, ma anche lo iato tra processi concorrenziali di mercato da una parte e capacità umana di adattamento dall’altra. Il cambiamento di qualifica e di abitazione o l’installazione di nuovi rami industriali al posto dei vecchi sono fattori che si evolvono più lentamente rispetto alla «liberazione» di forza-lavoro a causa dei processi di razionalizzazione, recessione e smantellamento. In ultima analisi anche il problema sociale della disoccupazione può essere regolato almeno un po’ solo attraverso l’intervento statale. I processi sociali causati dalla modernità, esattamente come la regolamentazione giuridica, richiedono attività supplementari dello Stato e dunque un incremento delle sue necessità finanziarie.

Negli ultimi decenni ai problemi sociali causati dalla modernizzazione si sono aggiunti quelli ecologici. Anche nei confronti di questi ultimi gli organi sensoriali del mercato sono del tutto insufficienti. Il denaro è per sua natura astratto e indifferente nei confronti del contenuto sensibile delle cose e la razionalità aziendale tesa alla minimizzazione astratta dei costi fa ricadere all’esterno non solo i costi sociali ma anche quelli ecologici. Questo accade perché la natura in quanto tale non rappresenta un soggetto giuridico e già per questo può essere trattata alla stregua di un deposito di scorie per i costi sistemici. Le basi naturali comuni solo con difficoltà possono trovare posto nella forma del mercato. L’aria, le acque (falde freatiche, fiumi, oceani) e il clima non si lasciano sottomettere alle relazioni economiche di scarsità e rappresentare in prezzi di mercato allo scopo di essere accessibili solo ad una domanda con adeguato potere di acquisto. Le basi naturali del mondo in ultima analisi o sono buoni per tutti o insopportabili per tutti. Inoltre i processi di degradazione ecologica sono a lungo termine e si sviluppano nel corso di diverse generazioni mentre l’orizzonte temporale del mercato è sempre e solo di breve respiro. Per finire, l’esternalizzazione aziendale dei costi ecologici può essere internalizzata dallo Stato attraverso tasse o altri provvedimenti solo con difficoltà, poiché la concorrenza globale fa sì che la tassazione all’interno dei confini della nazione diventi controproducente. Anche i costi ecologici conseguenti devono, in ultima analisi, essere sopportati dallo Stato con la creazione di istituzioni speciali; ne deriva che il suo campo d’azione e la sua domanda finanziaria si estendono ulteriormente.

Il terzo livello della crescente attività dello Stato è rappresentato dagli aggregati infrastrutturali: realizzazione di strade e di parte dei trasporti, approvvigionamento energetico e comunicazioni, formazione ed educazione (scuole, università), istituzioni scientifiche, canalizzazione e raccolta dei rifiuti, sistema sanitario etc. tutti questi settori infrastrutturali si sono sviluppati di pari passo con la sempre maggiore industrializzazione e scientificizzazione della produzione come fattori necessari di una produzione totale di merci. Questi aggregati non rappresentano tuttavia una produzione di merci conforme ai dettami del mercato ma piuttosto i presupposti infrastrutturali di una produzione di merci industriale e scientificizzata. Si tratta di inputs generali, relativi alla società nel suo complesso, che entrano nella produzione aziendale, senza poter essere a loro volta rappresentati adeguatamente dalla razionalità aziendale (in modo simile alle basi naturali generali). Anche gli aggregati infrastrutturali sono, non a caso, messi ovunque in funzione (o sovvenzionati) nella maggior parte dei casi dallo Stato e per questo motivo si apre un altro campo sterminato della riproduzione sociale che gonfia le attività dello Stato e le sue necessità finanziarie.

Il quarto livello dell’attività statale o dell’economia statale è l’ingresso in scena in prima persona dello Stato in quanto imprenditore produttore di merci cioè come operatore della produzione per il mercato. Lo Stato come imprenditore o persino, nelle forma più estrema rappresentata dal socialismo di Stato, come «imprenditore complessivo reale» è certo di per sé un paradosso poiché è come se, in questo modo il polo politico-statale cercasse di annettersi l’intero «campo» del sistema produttore di merci e di negare il suo polo sistemico antagonista, senza d’altra parte, superare il sistema in quanto tale. Questo paradosso è, alla fine, distruttivo per il sistema, ma non può essere criticato dal «punto di vista ideale» del sistema stesso poiché si è originato e continua ad originarsi dalle sue contraddizioni reali. Lo stato-imprenditore si trova innanzitutto nelle società della «modernizzazione di recupero», cioè quelle società entrate tardivamente nel sistema moderno produttore di merci. Questo non è casuale, poiché in molti paesi solo la macchina statale poteva portare avanti il tentativo di raggiungere i paesi più sviluppati attraverso l’accumulazione centralizzata del «lavoro astratto» (Marx). Ma anche nelle più antiche nazioni della modernità, secondo la specificità della loro storia, si trovano ancora tracce più o meno forti dello Stato come imprenditore industriale, soprattutto in Francia (per esempio Renault) e in Italia con i suoi complessi industriali ancora enormi.

Nonostante la generale e predominante ideologia della privatizzazione l’imprenditorialità statale si è scarsamente ridotta su scala mondiale dopo il 1989. A dispetto di tutti i progetti di privatizzazione, perfino negli Stati riformisti dell’Europa Orientale (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca) si trovano ancora nuclei industriali essenziali di proprietà dello Stato. Questo vale tanto più per il resto dell’Europa dell’Est, per le regioni dell’ex-Unione Sovietica, per la Repubblica Popolare Cinese e per l’India. Anche in America Latina la privatizzazione delle imprese di stato è riuscita solo parzialmente se si esamina la questione in dettaglio. E nella stessa Europa occidentale ci sono problemi e resistenze, che rendono improbabile una completa privatizzazione delle imprese nelle mani dello Stato. Nella misura in cui danno profitto le imprese statali migliorano certamente la situazione delle finanze dello Stato, anche se una parte di tali guadagni viene cannibalizzata a causa dei  costi (spesso gonfiati) per l’amministrazione ed il controllo di tali imprese. Tuttavia nella maggior parte dei casi si tratta di imprese in passivo, non redditizie che devono essere tenute in vita per ragioni politiche. Vale in generale il principio: «socializzazione (statalizzazione) delle perdite, privatizzazione dei profitti». Vengono così privatizzate, di regola, le poche imprese statali che danno lucro, mentre lo Stato resta con il grosso delle sue parassitarie imprese invenduto, imprese che rappresentano una «botte senza fondo».

Il quinto ed ultimo livello dell’economia di Stato è rappresentato dalle politiche di sostegno e dal protezionismo. Anche quando lo Stato non entra direttamente in scena come imprenditore, può influenzare indirettamente il processo della produzione di merci anche al di là della pura regolazione giuridica, tenendo in vita delle imprese formalmente private mediante sovvenzioni e/o difendendo gli imprenditori nazionali dalla concorrenza estera attraverso misure protezionistiche. Anche da questo punto di vista il socialismo di Stato, con la sua politica di sovvenzioni ed il monopolio del commercio estero rappresentava solo un caso eclatante, estremo, di una tendenza più generale, che anche nei paesi capitalistici occidentali del sistema produttore di merci ha assunto enormi proporzioni.

Dal blocco continentale di Napoleone sino alla famigerata «black list» americana incontriamo anche in Occidente tutte le forme concepibili di questa imprenditorialità statale indiretta, ovvero di questa «sofisticazione del mercato». Tutti i “vecchi” Stati industriali dell’Occidente sovvenzionano oggi massicciamente l’industria siderurgica e mineraria e la cantieristica navale. E la colossale burocrazia agraria della Comunità Europea, ipertrofica al limite dell’assurdo, si spinge persino oltre lo scomparso socialismo di Stato. Anche se la globalizzazione dei mercati ha reso praticamente impossibile ogni forma di autarchia nazionale o di «blocco» (per esempio a livello della triade formata da USA, Giappone, UE), continua tanto di più all’interno del Gatt e del WTO la «guerra economica mondiale» (Edward Luttwak). Quanto più gli Stati divengono “ostaggi” dell’economia multinazionale e la «posizione nella concorrenza» li incalza, tanto più forte (invece che più debole) diviene la loro tendenza, in questa contraddizione sistemica tra economia globalizzata da una parte e riproduzione all’interno del sistema-nazione dall’altra, a ricorrere a tutti trucchi nascosti del protezionismo e della politica delle sovvenzioni. Che questa guerra globale tra posizioni rappresenti per lo Stato sempre più un fattore divora-risorse lo si può capire facilmente.<7p>

In generale possiamo allora dire che la legge di Adolph Wagner, enunciata cento anni fa, ha buoni fondamenti, che neppure il neoliberalismo attuale può eliminare. Si tratta infatti della contraddizione interna al moderno sistema produttore di merci che si riproduce su livelli sempre più elevati: quanto più totale è il mercato, tanto più totale è lo Stato; quanto più si allarga l’economia monetaria fondata sulle merci, tanto maggiori sono i costi preliminari, secondari, conseguenti del sistema e tanto maggiore è anche l’attività dello Stato e il bisogno delle sue finanze. In tutti i paesi la quota statale si aggira oggi attorno al 50% del prodotto sociale, e ovunque più di metà della popolazione è dipendente, in modo diretto o indiretto dall’economia di Stato.

La non-autonomia strutturale  del subsistema politico-statale e l’illusione del primato della politica

La struttura polare, dualistica del moderno sistema sociale induce sempre di nuovo a supporre l’equivalenza gerarchica dei due poli del mercato e dello Stato o dell’economia e della politica. Ma sebbene entrambi i poli del «campo» non possano esistere di per sé, presupponendo ciascuno dei due il suo contrario, tuttavia il loro rango non è il medesimo. Si riscontra invece una predominanza strutturale del polo economico che talvolta può sembrare superata a vantaggio del polo politico-statale, ma che tuttavia si ristabilisce ogni volta di nuovo. L’idea di una egemonia strutturale fondamentale del mercato o dell’economia nei confronti dello Stato e della politica viene spesso negativamente definita come «economicismo». Ma non si tratta in alcun modo di un errore teorico, bensi di una dominanza reale del mercato nei confronti del polo politico-statale.

L’evidenza di tale preponderanza può essere illustrata da un fatto fondamentale: lo Stato non possiede nessun medium primario di regolazione, ma dipende dal medium del mercato cioè dal denaro. Il medium del «potere», che compete allo Stato e che nella teoria viene spesso uguagliato al denaro, non possiede una valenza primaria ma solo secondaria. Questo perché tutti i provvedimenti dello Stato devono essere finanziati, non solo le misure operative in campo giuridico, infrastrutturale etc., ma anche il «potere» nel senso più concreto del termine cioè i corpi armati. Perciò neppure l’esercito è un «fattore extra-economico» essendo anch’esso sottomesso al mercato per via del problema del suo finanziamento.

Il denaro è dunque il medium universale e totale (allo stesso tempo l’assurdo quanto astratto fine in sé della modernità), che sussume in sé anche il polo politico-statale. Lo Stato non possiede però nessun potenziale di creazione di denaro ed è perciò strutturalmente dipendente dal fatto che la società borghese guadagni abbastanza denaro «sul mercato», così da potere finanziare gli oneri della crescente attività statale. Solo nel cieco processo di mercato, che d’altronde sempre meno si lascia confinare all’interno di un area di sovranità politica, di un’«economia nazionale» in un singolo Stato (globalizzazione), «si origina» il denaro attraverso il lavoro astratto e la sua «realizzazione». Da questo deriva però non solo la fondamentale dominanza strutturale del mercato, ma anche una fondamentale contraddizione sistemica interna. Lo Stato entra in contraddizione con sé stesso in quanto da una parte le sue misure e procedure non hanno altro scopo se non quello di promuovere sul suo territorio il sistema di mercato e di produzione della merce e di mantenerlo in corso, dall’altra tuttavia esso deve «estrarre» dal processo di mercato il denaro necessario al finanziamento di queste attività, ponendo così dei limiti all’economia di mercato stessa; in questo modo lo Stato persegue il proprio scopo e simultaneamente lo contrasta.

Questa struttura paradossale è diventata evidente in parallelo all’assorbimento da parte del sistema produttore di merci dell’intera riproduzione sociale. Il solo finanziamento statale «regolare» è la tassazione dei redditi generati direttamente dai processi di mercato (che si tratti, indifferentemente, di tasse dirette o indirette). Ma se i costi preliminari, gli effetti secondari e i problemi conseguenti alla produzione di merci e con ciò, le attività statali necessarie, aumentano più velocemente dei redditi generati dal mercato, allora l’espansione della finanza pubblica attraverso l’ordinario mezzo della tassazione non solo minaccia di limitare la continuazione dei processi di mercato, ma addirittura di soffocarli. Se lo Stato provvede al «foraggio» per la «vacca da latte» monetaria del mercato mediante l’abbattimento della vacca stessa, i limiti del sistema diventano immediatamente visibili.

Il problema apparve per la prima volta su larga scala nel corso della Prima Guerra mondiale, poiché divenne chiaro che la moderna conduzione tecnologica della guerra non poteva essere più finanziata con i tradizionali strumenti tributari. Da allora, ad intervalli periodici, si torna a discutere a proposito della «crisi finanziaria dello Stato delle tasse». Rudolph Goldscheid e Joseph Schumpeter hanno formulato teoricamente questo problema fondamentale di crisi strutturale nel 1917-1918 in connessione con l’economia di guerra del primo conflitto, e da allora il dibattito attorno a questo problema non si è mai spento nel corso del Novecento. Non è per nulla casuale che il problema di natura finanziaria del «capitalismo di Stato» ovvero dell’«economia di guerra permanente» sia divenuto ripetutamente un grande tema di dibattito politico soprattutto sulla nave ammiraglia dell’economia di mercato occidentale, cioè negli USA; e non è neppure casuale che tale problema venga sempre trattato pressappoco negli stessi termini in cui lo formularono Goldscheid e Schumpeter (per esempio in James O’Connor, 1973).

Se lo strumento regolare della tassazione fallisce, lo Stato deve ricorrere ad un secondo strumento il cui carattere fondamentalmente poco serio è a poco a poco caduto nell’oblio: l’indebitamento presso i soggetti che partecipano all’economia nazionale. Lo Stato pertanto non si finanzia più semplicemente con le tasse che riscuote in virtù delle sue prerogative di sovranità e del monopolio della violenza, ma si fa prestare denaro dai suoi cittadini come un qualsiasi partecipante al mercato finanziario. Oggi questo meccanismo non è più considerato fondamentalmente avventato; si discute semplicemente fino a che quota del prodotto sociale lo Stato si possa indebitare per poter essere ancora considerato solvibile.

Esiste tuttavia una ragione che fa apparire l’indebitamento statale come precario e come una causa di crisi. Il sistema creditizio non è, per sua natura, finalizzato al finanziamento degli oneri statali. I risparmi della società sono concentrati nel sistema bancario come capitale monetario, per essere prestati al capitale produttivo in cambio del pagamento degli interessi. In questo modo nella società capitalistica può essere mobilizzata per i processi di valorizzazione ed accumulazione anche quel denaro che i suoi proprietari non avrebbero potuto utilizzare per quel fine. Ma se il denaro imprestato viene destinato al consumo invece che alla valorizzazione produttiva o se la valorizzazione produttiva fallisce, allora esso non raggiunge il suo scopo e il credito diviene presto o tardi «inesigibile». Quando questo succede su vasta scala, ci troviamo di fronte ad una crisi commerciale creditizia e, finalmente, ad una crisi del sistema bancario.

Il credito statale viene utilizzato però in massima parte non per fini di valorizzazione produttiva, ma per i molteplici usi del consumo statale, che non sono un lusso, ma una necessità sistemica (senza però essere produttivi nel senso della valorizzazione). Ed poiché il capitale monetario vi viene utilizzato in questo senso piuttosto che per attività produttrici di capitale, il credito statale finisce per produrre sul piano economico lo stesso disastro che su quello commerciale ha per conseguenza i crediti «inesigibili». Tale sviluppo ha anche il suo rovescio: quanto più capitale monetario viene prestato allo Stato, tanto più il risparmio sociale si trasforma da capitale monetario reale in semplici diritti nei confronti dello Stato: sempre più risparmio assume in realtà soltanto la forma dei titoli di credito statali. Essi tuttavia sono trattati «come se» si trattasse di introiti derivanti da interesse su capitale impiegato produttivamente, sebbene tutti questi soldi siano scomparsi da lungo tempo e per sempre nell’Ade del consumo statale. Per questo motivo Marx parlava, a proposito di questi titoli statali e a buon diritto, di «capitale fittizio». Una grande parte della riproduzione sociale nonché della ricchezza sociale presuntivamente accumulata nella forma del «patrimonio monetario», si basa oggi, a livello mondiale, su «capitale fittizio» .

In ultima analisi una tale costellazione del sistema creditizio può solo portare allo sfacelo del sistema finanziario cioè ad una più o meno fulminea «svalorizzazione» del «capitale fittizio». A partire dalla Prima Guerra Mondiale questo fatto si è realmente verificato diverse volte in numerosi paesi, e oggi ci approssimiamo forse ad un nuovo colossale shock da svalorizzazione su scala mondiale. Infatti negli ultimi decenni il «capitale fittizio» del credito statale (così come, del resto, l’altra forma del «capitale fittizio», la speculazione commerciale con le relative forme di un «capitalismo da casinò dei derivati») si è espanso in misura sempre più spaventosa e inaudita. Anche se il crollo finanziario del credito statale potrebbe essere un processo che si protrae a lungo, esso sarà comunque l’inevitabile risultato di un processo finito. E benché lo Stato possa far ricorso alle sue prerogative di sovranità per dichiararsi «debitore infallibile», ciò avverrà solo pena l’espropriazione dei suoi cittadini e il tracollo delle finanze nazionali.

Ma c’è anche un problema diretto e a breve termine legato alla permanente accensione di crediti statali. Poiché lo Stato, accendendo dei crediti, entra, in quanto fa domanda per il capitale monetario, in cocnorrenza con i richiedenti commerciali e produttivi. Un’accensione creditizia troppo elevata, che svuoti, per così dire il mercato finanziario, può perciò avere un effetto negativo sulla congiuntura, sulla crescita e anche sull’intera economia nazionale pari a quello di una troppo elevata tassazione dei redditi. Se lo Stato ha già prosciugato i risparmi della società e/o desidera impedire i contraccolpi negativi di una domanda statale eccessiva sul proprio sistema creditizio, allora può ricorrere allo strumento dell’«indebitamento con l’estero», presupposta la sua solvibilità, servendosi dei mercati finanziari internazionali. In questo modo il problema fondamentale non viene affatto risolto, ma solo trasformato con nuovi, addizionali potenziali di rischio a livello internazionale. Così numerosi paesi soprattutto nell’Europa dell’Est, America Latina e Africa sono già caduti nella «trappola dell’indebitamento». Ma anche alcuni grandi Stati industriali occidentali dipendono ormai dall’indebitamento esterno, prima di tutto gli USA, che oggi devono onorare il più colossale debito estero del mondo. Il sistema finanziario globale si trova oggi in una condizione sempre più precaria anche a causa dell’indebitamento internazionale dell’insieme degli Stati.

Quando non funziona più niente e lo Stato non può più finanziarsi né con le tasse né con la raccolta di crediti all’interno o all’estero, resterà come ultima ratio solo l’emissione di banconote: lo Stato farà sì che la propria Banca centrale crei per decreto «denaro improduttivo» dal nulla. Così facendo lo Stato si arroga la facoltà di creare denaro contro le leggi del sistema di mercato, cioè ignora con la forza, in quanto polo politico, la dominanza strutturale del polo economico. La punizione che immediatamente ne consegue appare notoriamente nelle forme dell’iperinflazione. Dalla fine della Prima Guerra Mondiale tale fenomeno si è verificato periodicamente in seguito alla creazione statale di denaro improduttivo, e oggi è una situazione strutturale duratura per un crescente numero di paesi. Contro tutte le illusioni circa il «primato della politica» si è ormai da lungo tempo dimostrato che, a causa del denaro, lo Stato e la politica sono basicamente dipendenti dal mercato e dall’economia.

Sebbene tutte le forme strutturali e i problemi di questa dipendenza siano noti, persiste testardamente l’idea che il polo politico-statale sia gerarchicamente pari o «in ultima istanza» possieda addirittura una competenza regolativa nei confronti dell’economia e del denaro. E sebbene i sistemi finanziari nazionali ed internazionali nel corso del XX secolo siano stati ripetutamente e pesantemente sconvolti e oggi siano ancora più labili, si spera in generale, alla maniera dei giocatori d’azzardo, che il sistema globale produttore di merci con la sua gigantesca superstruttura finanziaria continui a funzionare «in qualche modo» nonostante le sue logiche contraddizioni interne, per la semplice ragione che sino ad ora è sempre sopravvissuto «in qualche modo». Si nega la possibilità di un limite assoluto. Anche i paesi il cui sistema finanziario è già allo sfacelo, mettono in cantiere sempre nuovi «piani» economici e finanziari, che dovrebbero superare definitivamente il disastro. Ma nessuna politica economica potrà mai modificare la non-autonomia dello Stato nei confronti del denaro.

La crisi secolare della regolazione politico-statale

La barriera sistemica strutturale dell’intero «campo» della modernità, di cui non si trova traccia, per così dire, nei discorsi della politica quotidiana e nello scientifico business as usual della vita accademica diviene chiaramente visibile ad una analisi storica del processo di modernizzazione considerato nella sua totalità. In totale contrasto con l’ideologia neoliberale è possibile mostrare che, alla fine del XX secolo, i costi sistemici dell’economia di mercato stiano iniziando a superare i suoi rendimenti in modo assoluto e irreversibile. Il problema, un tempo solo virtuale e periodico, per cui i costi di mantenimento del sistema, che si traducono nelle attività dello Stato, finiscono col divorarne la sostanza, diviene reale e duraturo. Per questa ragione, dunque, un limite storico, assoluto del sistema è ormai stato definitivamente raggiunto ed esso ha assunto le forme fenomeniche di una lenta e progressiva crisi di finanziabilità di tutti i settori funzionali necessari al sistema stesso.

Serve a poco lamentarsi, alla stregua di un «onesto padre di famiglia» dei vecchi tempi, a proposito della «mania dello Stato di indebitarsi», come amano fare abitualmente i politici conservatori e populisti. La critica rivolta ai «costi eccessivi dello Stato» assume ottusamente il punto di vista del denaro e trascura completamente il fatto che i costi dell’attività dello Stato non sono il risultato di una cattiva conduzione finanziaria di quest’ultimo, ma rappresentano il livello di civilizzazione della modernità. La corruzione politica, fenomeno riscontrabile oggi in tutti i paesi, non è la causa della crisi ma una sua conseguenza. Ci sono sicuramente alcuni “falchi” dell’economia di mercato pronti a liquidare il livello di civiltà delle masse umane non più redditizie a causa della scarsa finanziabilità e ad abbandonarle alla barbarie. La speranza è, probabilmente, quella di continuare ad attuare una riproduzione capitalistica ristretta ad una minoranza globale in poche «isole di normalità».

Ma si tratta di una duplice illusione. Per prima cosa, i contraccolpi della barbarie  comporterebbero la conversione dei costi risparmiati sui programmi sociali, sulle infrastrutture etc. in costi per la «sicurezza», innalzandoli a livelli astronomici. Inoltre il livello civilizzatore delle infrastrutture, dell’istruzione e della scienza, della sanità e dei mezzi di trasporto pubblici, dell’eliminazione dei rifiuti etc. non rappresenta un lusso superfluo, ma un fattore necessario per mantenere in funzione l’accumulazione capitalistica stessa. Una produzione scientificizzata, che utilizza procedure in rete altamente sofisticate, non può galleggiare a lungo su di un oceano di analfabetismo, miseria, violenza, spazzatura, malattia e abbandono. Se l’attuale grado di civiltà non risulta più finanziabile, questo significa solo che la contraddizione interna del sistema è giunta alla sua piena maturazione. L’economia di mercato occidentale ha prodotto le potenzialità che la travolgono e che non si lasciano più rinchiudere nelle forme del moderno sistema produttore di merci.

Il paradosso per cui i costi necessari al sistema, dato l’attuale livello di produttività e scientificizzazione, superano i limiti di carico del processo di valorizzazione non può essere risolto nemmeno ricorrendo all’idea di «privatizzazione» tanto cara all’ideologia neoliberale. Se le infrastrutture del sistema costano più di quanto il sistema possa rendere, allora non è in alcun modo possibile ovviare a tale miseria semplicemente mediante un cambiamento di forma giuridica poiché il problema dal punto di vista sostanziale non muta. Questo vale anche per tutte quelle sfere in cui lo Stato, contro la logica del sistema, intraprende direttamente la produzione di merci per il mercato. Se perfino in questo settore le privatizzazioni procedono ovunque in modo stentato, ciò è dovuto a solide ragioni economiche, che non si lasciano assolutamente ricondurre ad una «falsa ideologia socialista». Certamente la produzione può essere resa «più efficiente» nel senso di promuoverne la redditività, da parte di un management privato orientato al mercato. Ma «efficienza» significa anche razionalizzazione, chiusura di intere aziende, dismissioni di massa. Paesi come la Russia, l’India o la Cina dovrebbero in breve tempo lasciare sul lastrico più di metà della loro popolazione. Il risultato potrebbe essere soltanto la guerra civile. Se le imprese di Stato non sono più finanziabili e se, simultaneamente, la privatizzazione conduce ancor più il sistema al collasso, allora siamo di fronte ad una classica situazione di stallo.

Questo è ancor più vero nel settore delle infrastrutture. Se è contrario al sistema il fatto che lo Stato (costretto in questo dalla necessità) faccia funzionare, in prima persona, imprese per la produzione di merci, ancora più contraria al sistema è la simmetrica assunzione da parte di imprese private degli oneri statali nel campo delle infrastrutture, trattate alla stregua di merci ordinarie. L’essenza dell’infrastruttura sta nel suo carattere di input per la società nel suo complesso, che deve coprire tutto il territorio per potere adempiere alla sua funzione. Ma se gli aggregati infrastrutturali vengono assoggettati alla relazione economica fondata sulla scarsità e funzionano solo per soddisfare dei clienti immediatamente solvibili, essi perdono il loro carattere di condizioni generali della produzione di merci. E’ impossibile privatizzare gli inputs relativi alla società nel suo insieme senza al contempo danneggiare gravemente tutto il processo di valorizzazione del capitale. In primo luogo tali inputs diverrebbero troppo cari e, secondariamente, non sarebbero mai disponibili, in quantità sufficiente, nel luogo e al tempo giusto, neppure per i richiedenti dotati di potere d’acquisto.

La privatizzazione di una parte delle infrastrutture, attuata finora nel mondo intero, ha confermato questo problema. In Argentina, le imprese nei centri urbani non trovano più abbastanza manodopera perché il trasporto pubblico è stato smantellato o è divenuto troppo caro cosicché i lavoratori delle periferie non possono più permettersi il viaggio per raggiungere il posto di lavoro. Negli USA, degli investitori giapponesi lamentano il fatto di non poter assorbire la manodopera locale (“local content”) perché la forza-lavoro del posto non ha la competenza necessaria per far funzionare macchinari molto complicati. In Inghilterra, l’industria paga l’inefficienza della rete telefonica pubblica dopo la privatizzazione che doveva renderla redditizia, al punto che gli impiegati in missione esterna devono essere equipaggiati con radio-telefoni a costi molto elevati. In Ungheria, gli investitori tedeschi hanno scoperto con sgomento che i vantaggi dovuti ai bassi salari vengono vanificati dalle continue interruzioni dell’erogazione di corrente, per ovviare alle quali, in pratica, dovrebbero costruirsi una centrale elettrica in proprio. Per tutti gli aggregati infrastrutturali vale la regola: quanto più sono privatizzati tanto più diventano scarsi e costosi. Nessuna economia nazionale può sopportare questo fatto troppo a lungo. Ovunque lo Stato si liberi, vendendola, dell’infrastruttura, arriva presto il momento di pentirsene.
Ma la cesoia della crisi sistemica si accanisce anche sul processo di valorizzazione. Non solo l’indispensabile attività dello Stato diviene troppo onerosa, ma anche la valorizzazione del capitale in quanto tale si affievolisce in tutto il mondo, un ciclo dopo l’altro. La riproduzione secondo le leggi dell’economia di mercato sembra logorare il suo stesso fondamento. Tale sviluppo viene fino ad oggi ignorato, anche dalle teorie della sinistra. Domina in generale l’opinione secondo cui presto o tardi l’accumulazione del capitale tornerà a mettere le ali mediante un incremento della produttività. Questa argomentazione si fonda, tuttavia, su un colossale abbaglio. Il nocciolo del problema consiste nel fatto che, a causa dell’incremento della produttività e della razionalizzazione, viene generato sempre meno “valore” per prodotto e per unità di capitale, poiché il «valore» è un concetto relativo, misurato sulla base di un certo livello di produttività (storicamente sempre crescente) all’interno di un dato sistema di riferimento capitalistico. Il processo capitalistico mette a repentaglio la sua stessa esistenza, riducendo al minimo la sua reale sostanza (il lavoro astratto).

Se nel passato la crisi sistemica implicita in questa contraddizione poté essere superata, lo si dovette solo al meccanismo di compensazione che consiste nell’espansione del modo di produzione in quanto tale. Già la razionalizzazione operata da Henry Ford aveva drasticamente diminuito la quantità di lavoro per unità di prodotto. Ma in questo modo, per esempio, il prodotto automobile divenne talmente più economico da poter  entrare a far parte del consumo di massa, e il mercato automobilistico si allargò di colpo. Occorreva meno lavoro per la singola automobile, ma se ne impiegava complessivamente molto più di prima per via del sovraproporzionale incremento della produzione di automobili. La razionalizzazione fordista visse pertanto di una espansione continua dei mercati, del lavoro di massa, dei salari di massa e dei consumi di massa. Si trattava fondamentalmente di un processo in cui tutti i settori di produzione locale, non capitalistica, di merci e l’economia domestica di sussistenza venivano assorbiti dalla logica della razionalità aziendale.

Oggi questa riserva storica si è ormai esaurita, come ha illustrato il sociologo tedesco Burkart Lutz nella sua ricerca. Nel frattempo la razionalizzazione postfordistica basata sulla microelettronica e la globalizzazione dei mercati di beni, denaro e lavoro hanno reso ingenti quantità di lavoro non più redditizie cosicché il vecchio meccanismo storico di compensazione inizia a franare. In altre parole: per la prima volta nella storia del capitalismo, la rapidità con cui la razionalizzazione toglie posti di lavoro supera quella di espansione dei mercati. La produttività aumenta sempre più velocemente, mentre l’allargamento del modo di produzione in quanto tale è praticamente cessato. Perciò la speranza in una nuova avanzata dell’accumulazione è piuttosto ingenua. La fondamentale contraddizione interna di questa società non è più un fenomeno ciclico ma strutturale: quella di basarsi sull’inesausta trasformazione di quanta di lavoro astratto in denaro, ma di essere arrivata da sola ad un punto in cui non può più essere mobilitato un numero sufficiente di tali quanta in modo redditizio secondo il livello degli standard produttivi autocostituiti. Ma quanto più difficoltosa diviene l’accumulazione reale tanto meno finanziabile è il credito statale, e quanto meno lo stato può finanziarsi tanto maggiori divengono i suoi compiti a causa della crisi strutturale dell’accumulazione. La modernità fondata sulla produzione di merci si è intrappolata da sola in questo circolo vizioso.

In questo contesto è doveroso criticare anche la «teoria della regolazione» che parte da modelli di accumulazione regolati politicamente e configurati culturalmente. Secondo tale teoria si deve presupporre una infinita «capacità di adattamento» da parte del capitalismo che transiterebbe da un modello di accumulazione all’altro. Questo modello teorico ricorda un po’ il mito dell’eterno ritorno e, nella misura in cui appare ispirato dal marxismo, potrebbe indurci a parlare di un «marxismo buddhista». Se esaminiamo la storia della modernità nel suo complesso, tale modello appare quanto meno singolare. Certo, la regolazione politica gioca un ruolo sempre più importante nel sistema dell’economia di mercato, poiché cresce la necessità sistemica delle funzioni statali, come già Adolph Wagner aveva scoperto. Ma noi non abbiamo dietro le spalle una storia interminabile di crisi, prosperità e «modelli di accumulazione».

Di fatto esiste, a rigore, un unico modello completo di accumulazione e di regolazione, che è simultaneamente il primo e l’ultimo: quello fordistico. Precedentemente, nel XIX secolo, la produzione capitalistica non poteva ancora funzionare pienamente sulla base dei propri presupposti, anche le crisi erano ancora mediate con le crisi agrarie pre-industriali e la maggioranza della popolazione, anche nei paesi più sviluppati, non era coinvolta o lo era solo in parte nel processo di razionalità imprenditoriale. E come vi può essere un «dopo» se si può produrre sempre di più con sempre meno lavoro e, di conseguenza, vi è sempre meno potere di acquisto? Una prosperità globale del mercato si realizzerà nel futuro solo se, alla stregua di un gioco di prestigio, il capitale si accumulerà senza lavoro. «Jobless growth» è un illusione che può essere mantenuta faticosamente (fino al crollo finanziario) grazie alla creazione a livello mondiale di «capitale fittizio», che non proviene da reali processi produttivi.

Un «modello di accumulazione politico» puro è ancora meno possibile. La «teoria della regolazione» sembra passare da argomenti presi dalla teoria del’accumulazione a illusioni politiciste. Prima però dovrebbe verificarsi un nuovo ciclo di accumulazione che solo poi potrebbe essere regolato politicamente, non il contrario. Ma nessuna politica ha mai estratto magicamente dal cilindro una nuova spinta accumulativa come se si trattasse di un coniglietto. Non sono le leggi basiche della produzione capitalistica di merci ad essere passibili di regolazione politica, ma solo le forme in cui essa si svolge. Il modello fordista si basava sul successo dell’accumulazione fondata su un processo sistemico privo di soggetto, mentre il modello di regolazione politica poteva operare solo su un livello derivato. Se la riproduzione sociale è oggi schiacciata tra il mercato e lo Stato dobbiamo escogitare un’alternativa al mero «aspettare Godot», ovvero il prossimo «miracolo economico» del sistema produttore di merci; miracolo che non arriverà mai più.

 


Titolo originale: Die Unselbständigkeit des Staates und die Grenzen der Politik

Traduzione di Samuele Cerea